Il 23.03.2023 Il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste unitamente al Ministero della cultura, hanno presentato domanda per l’iscrizione nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale della “Cucina Italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale”.
Quanta gioia e orgoglio nel sentire questa bellissima notizia ma, c’è un ma, non vorrei che servisse solo a farci sentire ancora più tronfi e a declamarci i “Dante Alighieri” della cucina e della cultura gastronomica al punto da sentirci quasi in dovere di andare alla ricerca del ristorante italiano quando si viaggia fuori confine perché “solo da noi si mangia bene, i nostri prodotti negli altri paesi se li sognano” e via cantando.
Proprio l’UNESCO (non l’amic* di conversazione) dice che “L’elemento candidabile, per la cui iscrizione è criterio fondamentale non il valore universale bensì la rappresentatività della diversità e della creatività umana, deve possedere le seguenti caratteristiche:– essere trasmesso di generazione in generazione; – essere costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in stretta correlazione con l’ambiente circostante e con la sua storia; – permettere alle comunità, ai gruppi nonché alle singole persone di elaborare dinamicamente il senso di appartenenza sociale e culturale; – promuovere il rispetto per le diversità culturali e per la creatività umana; – diffondere l’osservanza del rispetto dei diritti umani e della sostenibilità dello sviluppo di ciascun paese”.
Ora, riflettendo tra me e me, mi pongo una domanda, ma vuoi che tutti questi elementi non appartengano anche ad altri Paesi?
“Beh certo che si” mi risponderete voi “ma che c’azzecca con la bontà e l’unicità della nostra cucina?”.
E qui vi rispondo. Cerco di spiegarmi. Se partiamo dal presupposto che la pasta, le varietà vegetali, le tecniche, le tradizioni che abbiamo noi non le ha nessuno, sbagliamo tutti e di grosso e non ne usciamo più. Saremo sempre i migliori, forse un po’ presuntuosi, perché dovremmo conoscere tutte le altrui tradizioni e realtà gastronomiche, cosa pressochè impossibile.
È la rappresentatività della diversità e della creatività umana che conta. Sono le comunità e i gruppi che vivono, cambiano, evolvono nell’ambiente e nella storia. E’ l’appartenenza sociale e culturale che distingue la nostra cucina dalle altre, o meglio la distingue nel senso di “riconoscerla attraverso le caratteristiche peculiari”.
Vuoi che questo non appartenga a tutte le comunità e culture?
Certo che si.
L’attaccamento al prodotto rischia di essere riduttivo perché non sempre tutto parte da questo e qui si ferma, anzi.
Mi spiego meglio: il cibo e il mangiare nascono quasi sempre da una esigenza primaria e naturale, quella di nutrirsi e sfamarsi. Ogni comunità sarà partita da ciò che aveva a portata di mano. Per quanto ci riguarda, così per dire, dal grano, per altri dalle cavallette. Da qui sono nate e poi evolute le culture gastronomiche dei singoli Paesi.
Se ci pensiamo bene, in piccolo accade anche nelle tradizioni casalinghe di ogni famiglia.
Faccio un esempio, la pasta e fagioli che fa mia mamma è la più buona di tutte e non si discute.
Ma la pasta e fagioli che fa la mia amata ed adorata mamma non è la migliore di tutti perché lo è davvero. Lo è per me, per ciò che rappresenta e per il percorso che ha fatto per arrivare ad essere al mio palato, a miei sensi e alla mia memoria, l’indiscutibile pasta e fagioli che è.
Quella semplice ricetta le è stata trasmessa dalla mamma (all’interno della sua comunità -famiglia).
Ha subito poi l’influenza di un’altra “comunità”, la famiglia di mio padre.
Ha fatto e fa parte della mia comunità-famiglia, quella che loro hanno creato insieme.
In sostanza la ricetta della pasta e fagioli della mia mamma – costantemente ricreata dalle comunità e dai gruppi in stretta correlazione con l’ambiente circostante e con la sua storia – è diventata senso di appartenenza sociale e culturale.
Ha promosso il rispetto per le diversità culturali e per la creatività umana ed è oggi per me Patrimonio Immateriale Unesco .
Tutto questo per dire cosa?
Per dire che di cucine patrimonio immateriale Unesco ce ne sono già. Apriamo la mente, i sensi e soprattutto la testa al mondo, alle culture altrui e alle diversità gastronomiche e non.
Niente pregiudizi o rigurgiti di superiorità.
Concludo con una richiesta: non dite più che la cucina inglese non esiste, che quella cinese è il riso alla cantonese e che quella francese è tutto burro, cipolla e baguette sotto le ascelle.